12 maggio 2019 - 15:02

Salone del Libro, Iran alle porte: un’altra rogna

I vertici hanno incontrato tre rappresentanti della Fiera del Libro di Teheran

di Gabriele Ferraris

Salone del Libro, Iran alle porte: un’altra rogna
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Sabato i vertici del Salone si sono prodotti in un esercizio di alta diplomazia internazionale. Giulio Biino, il sorridente presidente del Circolo dei Lettori, e Silvio Viale, la lucida testa d’uovo che guida la cordata degli organizzatori, hanno incontrato tre rappresentanti della Fiera del Libro di Teheran. Roba seria, veh: quella della capitale iraniana è una manifestazione di richiamo mondiale, di dimensioni tali che al confronto quella di Torino è un bonsai. Quella dei tre re magi non era una visita di semplice cortesia. Essi portavano al Salone un dono di quelli che quando li ricevi non sai bene come regolarti: la candidatura dell’Iran come Paese ospite, il prossimo anno.

Non è stata una sorpresona. Come ben sapete, il vecchio Salone del Libro aveva un talento speciale, per cercarsi le rogne: difatti un anno fa l’allora presidente del Salone, Massimo Bray, aveva avuto la bella pensata di volare a Teheran e incontrare il ministro iraniano della Cultura Abbas Salehi, «corroborando così un’intesa avviata già all’epoca del governo Letta», scrissero i giornali. Salehi è un convinto assertore della fatwa contro Rushdie, tanto per intenderci. L’invito all’Iran, in quei giorni, era molto più che un’ipotesi: pure l’Antonella Parigi, interpellata dai cronisti, precisò che «si è lavorato insieme per concordare la data del 2020».

Immagino che la brillante trovata nascesse da un raffinato calcolo di equidistanza politica: se nel 2019 gli ospiti saranno i sunniti di Sharjah — avranno pensato i nostri Tayllerand — pare giusto che nel 2020 tocchi agli sciiti dell’Iran. Si vede che non gli era bastato di ficcarsi nel ginepraio dell’invito all’Arabia Saudita per il 2016, invito ritirato fra grandi imbarazzi quando i nostri zuavi scoprirono, ma pensa un po’, che l’Arabia Saudita non è precisamente la patria dei diritti umani. Ma a quei tempi usava così: il Salone si cacciava nei guai un giorno sì e l’altro pure, con un talento degno di miglior causa, e dunque invitare l’Iran poteva sembrare null’altro che un esercizio di ardimento fra tanti, tipo il bungee-jumping o lo schiaffeggiamento delle tigri. Ad ogni modo: i nostri ne avevano parlato, e gli iraniani ci contavano, e ieri si sono presentati belli belli per mettersi d’accordo sulla procedura. Ma intanto il Salone dopo tante liti e tante beghe ha imparato la lezione: né Biino né Viale ardono dalla voglia di ritrovarsi, pure nel 2020, sbattuti in prima pagina e vivisezionati a mezzo social. Quindi hanno abbozzato, si sono lungamente intrattenuti con i graditi visitatori, hanno dispensato sorrisi e ringraziamenti per l’alto onore, e hanno posato per la foto ricordo con i tre re magi. Intanto sulle loro lucide teste si materializzava il fumetto «ecco, ci mancherebbe ancora questa». Al momento del congedo, con cautela notarile il sorridente Biino ha sciorinato l’intero repertorio del «sarebbe fantastico, ma...». Ma abbiamo molte richieste. Ma dopo Sharjah dovremmo cambiare area geografica. Ma è presto per decidere. Ma non possiamo prendere impegni. Ma ci sentiremo senz’altro. Ma avremo modo di parlarne. Ma intanto teniamoci in contatto. In effetti l’idea dell’Iran paese ospite è suggestiva per chi teme che il Salone 2020, esauriti i clamori sull’editoria al nero di seppia, si ritrovi sguarnito di psicodrammi e contestazioni. Tuttavia sono abbastanza sicuro che l’invito a Teheran non sia un tema all’ordine del giorno. Non oggi, ma neppure domani.

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